Ateismo filosofico nel mondo antico

Religione, naturalismo, materialismo, atomismo, scienza: la nascita della filosofia atea
Carlo Tamagnone
Clinamen
2005
ISBN: 
9788884100771

La dispar condicio tra la religione e l’ateismo non si manifesta solo nella soverchiante attenzione che i mass media riservano a qualsiasi esponente della gerarchia ecclesiastica (tanto che persino un campanaro ha più chance di far sentire la propria voce in TV rispetto a un filosofo miscredente), ma si allarga anche alla produzione storiografica. A fronte di intere biblioteche dedicate alla storia delle religioni vi sono ben poche opere disponibili dedicate alla ricostruzione del percorso storico dell’ateismo. Ancora meno sono quelle dedicate all’ateismo nell’antichità: a parte qualche passo qui e là all’interno degli studi sulla filosofia greca (soprattutto Zeppi) o su quella indiana (Tucci, e l’ultimissimo Sen), per trovare un lavoro che tratti entrambi questi indirizzi bisognava risalire al lontano Atei dell’alba di Emilia Rensi. Il nuovo lavoro di Carlo Tamagnone è quindi una ghiotta occasione per colmare questa lacuna.

Come Rensi, oggetto dello studio di Tamagnone è l’ateismo “filosofico”. Non si dovrà quindi cercarvi una ricostruzione della diffusione della mentalità atea nelle società del mondo antico: una strada peraltro mai tentata da nessuno, malgrado le promettenti tracce contenute, ad esempio, nelle raccolte delle iscrizioni greche e latine. In questo perimetro d’indagine, a differenza di Rensi che presentò tutte le scuole di pensiero che contenessero, anche solo in nuce, una riflessione critica sulla religione, Carlo Tamagnone ha preferito dedicarsi, come dichiara in apertura, a «un progetto di ricerca sulla teoresi atea dalla origini ai nostri giorni, nella quale si estraggano e si evidenzino non tanto gli aspetti antireligiosi dell’ateismo, quanto quelli che lo caratterizzano filosoficamente», un progetto che «si giustifica in un atteggiamento ateo che non intende qualificarsi per ciò che nega quanto per ciò che propone». È questa la ragione per cui l’autore ha espunto dalla sua trattazione la scuola indiana del Mîmâmsâ, così come i filosofi scettici e Stratone di Lampsaco (che pure sarà alla base delle riflessioni sull’ateismo di Pierre Bayle, a loro volta riprese prima da David Hume e poi da Anthony Flew).

Il lavoro di Tamagnone si presenta diviso in sei parti: le prime due costituiscono una sorta di premessa allargata in cui il fenomeno religioso viene presentato, seppur brevemente, attraverso i principali studi antropologici e sociologici, a cui fa seguito prima la trattazione del differente approccio al divino del mondo arcaico e di quello antico, poi una disamina di politeismo e monoteismo, all’interno di una prospettiva di ricerca che «intende “storicizzare” il fenomeno religioso piuttosto che svalutarlo». La tesi dell’autore è che «espressioni ateistiche sono possibili esclusivamente in contesti sociali cui afferiscano due requisiti indispensabili: un elevato livello culturale generale e una sufficiente libertà di pensiero». Per questo motivo le culture arcaiche non hanno potuto giungere a elaborare alcuna forma di miscredenza, trattandosi di società in cui, «se il soggetto vuole continuare a rimanere integrato […] non ha altra scelta (ammettendo che egli si ponga il problema) che “credere” alle verità che la società gli inculca e gli impone fin dalla nascita». Aspetti che, peraltro, a parere di chi scrive, sono ampiamente presenti anche nel mondo moderno e sono alla base di tanto “nicodemismo” odierno. Stimolanti sono anche le riflessioni sulla relazione intercorrente tra fede e “omeostasi” (ovvero, il benessere psicofisico): secondo Tamagnone, l’homo religiosus è avvantaggiato sull’homo atheus da questo punto di vista, in quanto quest’ultimo si caratterizza per riuscire «a conseguire la sua omeostasi psichica senza far ricorso a una Weltanschauung religiosa» e quindi con maggior sforzo. Ma non è detto che questa sia una condizione inevitabile: anzi, l’ateismo potrebbe, sotto questa luce, essere solo «antropologicamente prematuro».

Le successive tre parti indagano tra le pieghe della filosofia greca, sorta non a caso in una società caratterizzata da «uno scarsissimo riscontro fideistico nella coscienza del pagano in genere». Sfilano i nomi, ben noti a chi ha una infarinatura di storia della filosofia, dei pensatori della scuola di Mileto, di Empedocle (le cui tesi sulla pluralità delle forme della materia sono particolarmente care all’autore), di Anassagora e dei sofisti. La parte forse più interessante del volume è la quarta, dedicata alla scuola atomista, in cui Tamagnone compie un importante tentativo di ricostruzione delle differenze tra il pensiero di Leucippo e Democrito. Proprio Leucippo, “inventore” del vuoto e sostenitore del “caso”, emerge come il propugnatore delle tesi più vicine all’ateismo moderno. La quinta parte muove dai Cirenaici per giungere ad Epicuro (reintroduttore del “caso”, pur fra mille cautele sull’esistenza degli dèi) e a Lucrezio, che provvederà a spazzare via le accortezze del suo maestro all’interno di una poetica esistenzialista straordinariamente attuale.
La sesta e ultima parte è dedicata all’indagine sulla filosofia indiana. Questa, molto più “spiritualista” rispetto a quella greca, presenta come unico sviluppo materialista il pensiero dei Cârvâka, peraltro scarsamente conosciuto. Il sistema Sâmkhya, il jainismo e il buddhismo primordiale, pur proponendo notevoli motivi di riflessione, mantengono un sostrato religioso, e ancora più deterministico, che impedisce un compiuto approdo all’ateismo.

In definitiva, un testo interessante che si legge con piacere, purché non si sia completamente dimentichi degli studi filosofici liceali. Le frequenti citazioni di questi “nostri antenati” (le “nostre radici”) costituiscono un ulteriore motivo di attrattiva: come diceva Democrito, un uomo incredibilmente avanti per i suoi tempi, «il diletto e il suo contrario costituiscono il discrimine di ciò che è da accogliere e di ciò che è da respingere».

Raffaele Carcano
20 novembre 2005