Amori proibiti

I concubini tra Chiesa e Inquisizione : Napoli 1563-1656
Giovanni Romeo
Laterza
2008
ISBN: 
9788842086598

L’idea che le coppie di fatto siano un fenomeno recente è molto diffusa. C’è stato tuttavia un tempo, nemmeno tanto remoto, in cui le famiglie di fatto abbondavano: a differenza di quelle odierne, si formavano in seguito a contingenze particolari, e quasi sempre per imperiosa decisione del maschio “dominante”. Ciononostante, allora come oggi, si trattava pur sempre di coppie che vivevano stabilmente insieme senza che l’unione fosse sacralmente sancita da un matrimonio officiato da un sacerdote.

La circostanza non deve stupire: il matrimonio cattolico, così come lo conosciamo, è un’invenzione relativamente nuova, essendo stato teologicamente definito solo dal concilio di Trento. Nei secoli precedenti il XVI, invece, la sua validità, anche da un punto di vista legale, era stata individuata nel pubblico accordo tra le parti contraenti, senza l’indispensabile presenza di un prelato. In assenza di leggi specifiche, e dunque di un’autorità legittimata a punire i “concubini”, le convivenze erano decisamente più diffuse di quanto potremmo sospettare.

A tali relazioni, peraltro, non erano refrattari nemmeno i preti: anche l’obbligo del celibato ecclesiastico aveva pochi soli secoli alle spalle, accolto (immaginiamo) con scarso entusiasmo dai sacerdoti, ai quali dunque non restava che prendersi delle concubine. Fenomeno per nulla clandestino, tra l’altro: la tassazione delle conviventi dei preti è documentata, in Calabria e Abruzzo, fino al 1447.

Troviamo questa e altre informazioni in un bel libro di Giovanni Romeo, Amori proibiti, che documenta il giro di vite che la Chiesa cattolica impresse dopo il concilio di Trento. Non sempre, non ovunque: gli approcci furono diversi da diocesi a diocesi, in base soprattutto al grado di contrapposizione tra le autorità temporali e le gerarchie ecclesiastiche. Laddove i magistrati civili non si rivelavano abbastanza “morbidi” la criminalizzazione delle convivenze poteva rappresentare una strada per estendere la sfera di Dio, a danno di quella di Cesare. La scelta della convivenza poteva costituire un rifiuto del carattere sacramentale del matrimonio, così come il mancato accoglimento della richiesta di sciogliere le relazione peccaminosa poteva essere interpretato come rifiuto dell’autorità ecclesiastica: in tal modo, anche l’accusa di eresia cominciava a far capolino nei processi inquisitoriali contro i conviventi.

I provvedimenti draconiani non erano infrequenti: nel 1574, ad Alessandria, le adultere furono costrette ad andare a messa rapate a zero e con la testa coperta da un coperchio d’orinale. La frusta pubblica e la tortura del fuoco furono anch’esse applicate: gli arresti furono migliaia, portati a termine in flagranza di reato, con tanto di giudice e di notaio del Sant’Uffizio al seguito, dalle guardie delle curie vescovili (a Napoli, luogo su cui si sofferma in particolare l’autore, chiamate scoppettelle). Le pene previste erano addirittura ancora più pesanti: secondo il Rituale Romanum, ad esempio, i parroci erano tenuti a percuotere i corpi dei conviventi defunti senza pentimento. Se simile crudeltà fu solo raramente applicata non fu certo per pietà, ma per la consapevolezza della sua impraticabilità, in una società in cui le coppie irregolari abbondavano.

I processi non avevano necessariamente un esito infausto: molte coppie si disinteressavano della scomunica ricevuta, riuscendo talvolta a far perdere le proprie tracce. Altre volte la vicenda finiva in farsa, come nel caso in cui furono i giudici ecclesiastici a “decidere” il marito tra i due uomini con cui viveva contemporaneamente una donna. Diffusa era anche la solidarietà di corpo nei confronti dei preti, anche quando le unioni da essi avviate erano di tipo omosessuale (in alcuni casi, addirittura “consacrate” da un sacerdote): le condanne, quando c’erano, erano mitissime. Al contrario, la documentazione presentata da Romeo mostra come fossero le donne le più penalizzate; spesso costrette alla fuga o alla miseria, anche quando non erano colpite da sanzioni, e altrettanto frequentemente private dei propri figli minori dagli araldi della retorica familista.

In una vera e propria società totalitaria, in cui vigevano controlli incrociati della pratica religiosa e in cui era statuito per filo e per segno l’obbligo di delazione da parte dei parroci, è sorprendente constatare come tanti scomunicati si siano rivelati del tutto indifferenti alle pene ecclesiastiche: atteggiamento rafforzato dal sostanziale pragmatismo dei vicini, che tolleravano quasi sempre senza problemi la contiguità con tali pubblici peccatori. I provvedimenti di esclusione dalla comunità furono rapidamente definiti dalle popolane napoletane «scomuniche di fessa», ma non mancarono nemmeno reazioni violente, con tanto di invettive contro la Madonna e allusioni a un rapporto gay tra Gesù e Giovanni, «il discepolo che amava». Nonostante la palese impopolarità della campagna anti-concubini, la burocrazia inquisitoriale napoletana si sarebbe fermata solo per il sopraggiungere della peste, nel 1656: una volta passato il pericolo, e ritornata la gioia di vivere tra la popolazione, anche il Sant’Uffizio riprese ad accanirsi contro i conviventi.

Conoscere il passato aiuta a comprendere meglio il presente, e per questo motivo risulta particolarmente significativa la frase con cui Giovanni Romeo ha concluso la sua premessa al volume: «Chi studia da una vita l’Inquisizione italiana in età moderna avverte con crescente intensità la sensazione sgradevole che i suoi paladini siano ancora vivi, che un passato remoto stia tornando, talvolta con accentuazioni inquietanti».

Raffaele Carcano,
Circolo UAAR di Roma,
luglio 2008