Schopenhauer, Thoreau, Stirner

Le radicalità esistenziali. Controstoria della filosofia
Michel Onfray
Ponte alle Grazie
2013
ISBN: 
9788862207409

Una metafora gastronomica potrebbe rendere la piacevolezza di questo volume. Provate a confrontare una buona bistecca e dei deliziosi e croccanti spiedini di crostacei. In entrambi i casi il senso di sazietà renderà giustizia ai due piatti ma, nondimeno, nel secondo caso ci sarà un sapore supplementare (diamo per scontato che tra i lettori non ci siano degli itticorepellenti) che stuzzicherà ulteriormente il palato. Il libro di Michel Onfray si può agevolmente ascrivere, seguendo l’esempio testé fatto, ad una sorta di slow reading, lo si gusta man mano che si legge. E dire che si presenta sotto i peggiori auspici: in copertina il ritratto del truce Schopenhauer campeggia a tutto tondo. Senza parlare degli altri convitati di pietra, Thoureau, Stirner, dei bei peperini niente male.

Capitolo VI della onfrayana controstoria della filosofia. Tutte le controstorie hanno sempre il pregio della controluce, dello sguardo obliquo che permette di vedere i dettagli. Chi vi si avventura (penso alla Controstoria del liberalismo dello storico Lo Surdo, acutissima) mostra sempre una supplementare conoscenza della storia (quella manualistica e convenzionale), poiché non si può essere contro senza avere chiare le ragioni di chi sta dall’altra parte. Le controstorie filosofiche suggeriscono soprattutto che la filosofia non procede necessariamente per accumulo e progressive acquisizioni ma sovente per decostruzione. Ad Al-Ghazali che attaccava Avicenna con la sua Distruzione dei filosofi, Averroé rispondeva con La distruzione della distruzione (di Al-Ghazali), giusto per fare un esempio noto.

Schopenhauer, Thoreau, Stirner dunque. Ovvero le radicalità esistenziali, come recita il sottotitolo, che potremmo tradurre con la consapevolezza, comune a codesti tre filosofi, in linea con la dogmatica feuerbachiana/marxiana, che la filosofia non può essere pura contemplazione ma è prima di tutto esperienza che cambia l’ordine del mondo attorno a dei pilastri fondamentali individuati, di volta in volta, nelle passioni o, se si vuole, ossessioni, delle nostre teste di serie predette, accomunate, giova ripeterlo, dall’aver intrapreso percorsi inediti, destinati ad esaltare l’individuo e la sua irripetibile singolarità fuori dai rassicuranti schemi dei grandi sistemi di cui il secolo che li vede protagonisti, l’Ottocento, è imbevuto. Ma si badi bene, non parliamo di personaggi bizzarri, e per quanto originali, magari un po’ patetici. Nossignori. Trattasi di individui decisamente di spessore, delle vere eccellenze la cui impronta non è passata inosservata già tra i contemporanei.

Henry David Thoureau, per esempio, non è solo teorico della felicità perfetta ma ne è l’incarnazione sublime. A ragion veduta, lui, cultore delle scuole di saggezza precristiane, aborre il trionfo del cristianesimo che ha rivendicato il monopolio della vita filosofica ma che ha trasformato, deturpandone l’animus, la filosofia medesima; filosofare divenne questione di laboratori, uffici, biblioteche ed università, luoghi nei quali i combattenti dell’Impero cristiano erano i professori di filosofia che, secondo Thoreau, divennero talmente numerosi quanto rari divennero i filosofi veri ovvero quelli che non si accontentano di discettare ma che vivono il loro pensiero. Si intravedono nel discorso thoreauniano tracce di socratismo nel nosce te ipsum, lampante è l’ammirazione per il Diogene il cinico per la frugalità, la vita allo stato brado e il rifiuto di ogni gregarismo, tutte cose che filosofo americano praticò, solitario, nel suo capanno di Walden con la sua distanza dai trascendalisti di Emerson, a cui pure dovette tanto, ed ancora l’epicureismo come soddisfacimento dei soli desideri naturali e necessari, atarassia e continenza sessuale.

Edonista ed eudemonista, sensista ed immanentista, Thoreau fu soprattutto un anarchico-libertario (più libertario che anarchico come precisa correttamente Onfray) che esaltò l’individuo e disprezzò i governi, e che non a caso conobbe anche la prigione per la sua insubordinazione (rifiuto di pagare le tasse contro lo schiavismo teorizzato dal suo governo) e un formidabile hippie ante litteram, convinto con qualche decennio di anticipo rispetto a Sigmud Freud del disagio dell’uomo nella civiltà nonché tenace ammiratore degli Indiani d’America e delle culture orientali che all’analisi scientifica hanno preferito la “simpatia esistenziale”. E, ancora una volta, Thoureau, accusa il cristianesimo di avere separato l’uomo dalla natura, avendolo messo al vertice della creazione dandogli il diritto di farne un uso smodato e irrazionale. Coerente fino alla fine, Thoureau ormai indebolito irreversibilmente dalla tubercolosi, rifiuterà gli analgesici offertigli dal suo medico per essere lucido fino all’ultimo e per vivere pienamente ogni istante. Irriverente come sempre, ad un suo concittadino che lo interroga nei suoi ultimi istanti sull’altra vita risponde: “Una vita alla volta!”.

Quanto a Schopenhauer, il ritratto delineato da Onfray è decisamente inedito. Accanto alla tradizionale immagine del nichilistae del pessimista cosmico che guarda alla realtà come una tragica farsa e che è sicuro di vivere nel “peggiore dei mondi possibili”, Onfray, con somma finezza, riesce a far emergere, un’etica bianca per certi versi complementare all’ontologia nera del filosofo tedesco che nell’epoca dell’ubriacatura di massa per idealismo aveva il coraggio di irridere Hegel, Fichte e Schelling e che aveva l’ardire di integrare quanto mancava a Kant, decisivo nella sua formazione di autodidatta della filosofia (scrive a proposito di Kant nel 1810: “Epicuro è il Kant della ragion pratica, come Kant è l’Epicuro della ragione speculativa”). La presa di mira degli esponenti più in auge dell’idealismo tedesco (sembra che Schopenhauer abbia anche assistito alle lezioni di Fichte, uscendone poi sdegnato), in linea con quanto pensava Thoureau dei filosofi di professione, è coerente con chi (come Thoureau) pensa alla filosofia come rimedio ai mali del mondo e non può che detestare chi vive “non per la filosofia, ma della filosofia”. E come Thoreau, bersaglio della sua opera capitale (Il mondo come volontà e rappresentazione) non può che essere il cristianesimo, ideologia dominante di cui l’idealismo tedesco, “che dietro parole magniloquenti nasconde pensierucci ridicoli”, è la longa manus.

Ma in cosa si sostanzia questa etica bianca, in un autore che candidamente nega l’esistenza del libero arbitrio e che affida tutto ad un determinismo cieco e alla pura necessità, a quella Volontà, eterna ed indistruttibile, fuori dalla quale nulla esiste, e per il quale il non essere è preferibile all’essere? Ecco allora che l’umbratile Schopenhauer è lo stesso che scrive opere come L’arte di essere felici, o Aforismi sulla saggezza della vita o Parerga e paralipomena che ha tinte assai meno fosche del Mondo come volontà, in cui peraltro Onfray intravede già tracce di un’etica bianca o, come la chiama ancora Onfray, una saggezza empirica eudemonistica: perché se il mondo “è una mia rappresentazione” è sempre possibile trovare una rappresentazione migliore rispetto a quella precedente; cosicché il filosofo più ostile alla vita può vivere (e di fatto visse) quasi edonisticamente, ed ecco affiorare a fianco dello Schopenhauer kantiano quanto a speculazione quello epicureo nella vita pratica, ritrovando nella saggezza pratica quella libertà negata sul terreno metafisico condita da ricette atarassiche dalle chiare influenze induiste e buddhiste.

Anche la morte, di fronte al nulla che ci aspetta, non deve turbare; anche la morte è il frutto di una rappresentazione oltremodo enfatizzata, laddove si tratta di una intrinseca necessità di ogni fenomeno. Quando il 21 settembre 1860 la governante trova Arthur Schopenhauer morto sul divano, sotto il ritratto di Goethe (che conobbe e dal quale solo tardivamente fu lusingato, come avvenne per la sua fortuna di filosofo) il suo volto appare impassibilmente sereno. Il burbero Schopenhauer se ne va ma dopo di lui niente sarà più come prima. La sua influenza sul pensiero successivo (Nietzsche, i naturalisti francesi, Freud, il filone dei nichilisti, quello degli esistenzialisti) sconfina finanche nella neurobiologia contemporanea che riconduce alle secrezioni del cervello molto della fisica delle passioni. Non casualmente Schopenhauer studiò anche medicina.

Infine Stirner, pseudonimo di Johann Kaspar Schmidt, che quanto a radicalità tiene il passo e forse va anche oltre rispetto ai due sunnominati; chissà, se il destino li avesse fatti incontrare, che gioiosa macchina da guerra sarebbero stati capaci di imbastire! La figura di Max Stirner, riconosce Onfray, è la più estrema delle tre, lui considerato il ribelle, il maledetto, l’anarchico per antonomasia anche per le intricate vicende biografiche, che condivide con Schopenhauer un viscerale antihegelismo con toni innegabilmente originali: il problema primigenio è stabilire “chi” sia l’uomo. Ostile alla religione ma ad ogni altra forma di conversione immanentista e umanitarista della teologia (illuminismo, socialismo, comunismo, liberalismo compresi), refrattario a ogni istituzione (Partito, Monarchia, Famiglia, Chiesa, Stato), negatore di ogni morale imposta, non rimane che il bene sommo, cioè l’Unico, il singolo uomo, il suo io, “volontà di potenza” in espansione che non ha altri significati fuori da se stesso. Il diritto è creato per Stirner dalla forza, cosicché tanti singoli possono creare le cosiddetti associazioni di egoisti legittimati, per esempio, ad appropriarsi dei beni del ricco in un immenso hobbesiano campo di battaglia in cui o si è mangiatori o si è mangiati, al di là del bene e del male (Nietzsche saprà ricordarsi di questi concetti), la felicità non è una concessione di uno Stato o di una religione ma conquista personale.

La religione stirneriana è religione dell’immanenza: sensismo, materialismo, edonismo tutto il resto è alienazione in nome di un Dio o in nome di qualche uomo o di più uomini, che è lo stesso. In particolare “la religione di Cristo ha colpevolizzato gli uomini e infettato il loro rapporto con il mondo a causa del peccato originale”. L’uragano di pensieri che affastella l’universo stirneriano può essere sintetizzato in un inno alla libertà del singolo contro le categorie astratte (fossero anche i Diritti dell’Uomo o le Costituzioni materiali), un omaggio alla rivolta dell’individuo contro le rivoluzioni (i rivoluzionari di oggi saranno i reazionari di domani, Camus avrà letto certamente Stirner).

Schopenhauer, Thoureau, Stirner dunque. Autentici giganti del pensiero, senza i quali forse l’ateismo non sarebbe dottrina filosofica ma tendenza e devianza antica, e al contempo autentici rivelatori della ricchezza dell’ateismo stesso, che non è un monolite e soprattutto non mera predicazione ma etica applicata (tra le più odiose bugie delle religioni sicuramente al vertice c’è quella che solo in esse si trovi moralità). E, mi si consenta, anche misticismo, una parola che abbinata ad ateismo farà sicuramente storcere il naso a qualche lettore, ma cosa c’è di scandaloso nel ricondurre il sublime nel sillabario dell’ateismo?

Questo libro, come ogni buon libro, rimanda ad altri libri, e ci fa venire voglia di leggerli o di rileggerli questi autori, dal pensiero profondo e dalle personalità debordanti, affascinanti nonostante taluni evidenti limiti (in cima una misoginia davvero pesante ed indigeribile riguardo alla quale finanche un Paolo di Tarso sembra sfigurare), dalla boria (di chi è conscio della propria genialità) ad un solitarismo un po’ dandy (che forse li ha preservati puri da ogni contaminazione).

Davvero viene da dire morta la filosofia: per fortuna, rimangono i filosofi. Meglio ancora se a parlarci di loro è un altro filosofo anticonformista e avventurista (quanti si sarebbero imbarcati in un Trattato di Ateologia?) come Michel Onfray.

Stefano Marullo
luglio 2013