La fine della fede

Religione, terrore e il futuro della ragione
Sam Harris
Nuovi Mondi Media
2006
ISBN: 
9788889091326

Abbastanza curiosamente, quest’opera si presenta con una nota dell’editore che comunica al lettore che «pur dissociandoci in parte dai contenuti di questo libro, riteniamo che la sua pubblicazione possa contribuire al dibattito sulla laicità». In realtà non sappiamo da quali contenuti si dissoci l’editore, perché il testo affronta di petto diverse tematiche. Benché la vis polemica dell’autore sia senz’altro ragguardevole, non è a mio avviso superiore a quella di altri illustri saggisti. Forse è solo politicamente “scorretto”.

Sam Harris non è un nome da poco: benché questa pubblicazione rappresenti il suo esordio, il suo successivo sforzo editoriale, Letter to a Christian Nation, è volato negli States ai primi posti delle classifiche di vendita, facendo immediatamente accreditare Harris come esponente di prestigio del cosiddetto New Atheism, alla pari dei ben più blasonati Richard Dawkins e Daniel C. Dennett. In realtà, in La fine della fede Harris, salvo errori, non cita mai la parola “ateismo”. L’argomento è la religione e l’uso che se ne fa, e la critica formulata dall’autore è portata nel nome (più generico) della “ragione”: una scelta peraltro condivisibile, se lo scopo ultimo è quello di rendere meno aggressiva la convivenza sul pianeta. Più che Dennett o Dawkins, l’impostazione di questo libro (se si escludono i due ultimi capitoli) ricorda maggiormente il Trattato di ateologia di Michel Onfray, soprattutto per la sua vibrante critica nei confronti del monoteismo.

A differenza del filosofo francese, tuttavia, Harris non porta attacchi filosofici in nome dell’ateismo, ma preferisce soffermarsi sulle ricadute concrete sulla società e gli individui che le varie teologie, e i sacri testi che ne stanno a monte, hanno prodotto nel passato (con riferimento, più di tutto, all’inquisizione e all’antisemitismo) e soprattutto nel presente. L’autore ricorda come «gran parte degli abitanti del pianeta crede che il Creatore dell’universo abbia scritto un libro. Per nostra sfortuna abbiamo molti libri di questo genere, ognuno dei quali proclama la propria infallibilità». Tuttavia, «gran parte di ciò che oggi consideriamo sacro è sacro per la sola ragione che era ritenuto tale in passato»: oggi siamo tutti (potenzialmente) in grado di prendere atto che i testi sacri sono privi di attendibili prove a sostegno di quanto affermano, ma ciò non ha prodotto molti risultati concreti, e una larga parte della popolazione mondiale continua a farvi affidamento. «La fede religiosa rappresenta un uso improprio e così assoluto della potenza della nostra mente da formare una specificità culturale perversa: un punto di fuga oltre il quale il dibattito razionale risulta impossibile». Se, come sembra, «la Bibbia [è] opera di uomini e donne coperte di sabbia, che pensavano che la Terra fosse piatta e per i quali una carriola avrebbe costituito un esempio sconvolgente di tecnologia», «ritenere un simile documento la base su cui fondare la nostra visione del mondo […] significa ripudiare 2.000 anni di idee di civilizzazione».

È sicuramente difficile, per chi non crede, concepire razionalmente la fede, e il modo in cui viene vissuta: «i fedeli non sono mai stati indifferenti alla verità. Eppure, i principî della fede li rendono incapaci di distinguere il vero dal falso in ambiti che li coinvolgono profondamente». Per quanto possa sembrarci assurdo, Harris sostiene che non c’è differenza «tra un uomo che ritiene che Dio lo ricompenserà con 72 vergini se uccide una ventina di adolescenti ebrei e uno convinto che le creature di Alpha Centauri gli stiano inviando messaggi per la pace del mondo attraverso l’asciugacapelli». Anzi, «a dire il vero una differenza c’è, ma essa non conferisce alla fede religiosa una sfumatura lusinghiera».

Da queste citazioni si comprende come siano giustificabili (anche se non necessariamente condivisibili) i timori che Harris esprime a ogni pie’ sospinto, tanto da conferire al testo una fisionomia sinistramente escatologica: «ora quelle stesse persone possiedono armi chimiche, biologiche e nucleari»; «la religione è la causa esplicita di milioni di morti avvenute negli ultimi dieci anni. Questi episodi dovrebbero sconvolgerci come degli esperimenti psicologici sfuggiti di mano, poiché è esattamente ciò che sono»; «se non riusciremo ad avanzare […] allora non ci resterà che contare i giorni che ci separano dall’Apocalisse». Un paragone provocatorio risulterà particolarmente indigesto ai credenti: «Immaginate un mondo in cui generazioni di esseri umani iniziano a credere che Dio in persona abbia realizzato alcuni film, o programmato un particolare tipo di software. Immaginate un futuro in cui milioni di nostri discendenti si uccidono l’un l’altro perché interpretano in modo diverso “Guerre stellari” o Windows 98. Potrebbe esserci qualcosa di più ridicolo? Eppure, ciò non sarebbe più ridicolo del mondo nel quale viviamo».

Particolarmente presi di mira sono i due fondamentalismi, quello cristiano made in USA e quello islamico, a cui Harris dedica due capitoli specifici. Un abbinamento che può apparire incongruo o riduttivo a noi europei del sud, che abbiamo a che fare quotidianamente con le crescenti pretese degli episcopati cattolici, ma che riflette invece un’opinione molto diffusa tra i commentatori d’Oltreoceano (cfr., ad esempio, Benjamin R. Barber e il suo Guerra santa contro McMondo), presso i quali questi temi sono senz’altro più dibattuti. Le critiche di Harris all’estremismo islamico sono decisamente tranchant: a suo dire «gli attentati suicidi sono stati razionalizzati da buona parte del mondo musulmano (nel quale sono definiti “esplosioni sacre”)», e critica con veemenza coloro che ne minimizzano la relazione con la religione («chiunque affermi che i precetti dell’Islam “non hanno nulla a che fare col terrorismo” non fa che giocare con le parole») e con i sacri testi («siamo in guerra proprio con quella visione del mondo prescritta a tutti i musulmani dal Corano, e poi ulteriormente elaborata nella letteratura degli hadith»). E a mo’ di conferma, dedica più di quattro pagine a un florilegio di passaggi intolleranti tratti dal Corano. Non manca nemmeno l’ironia più pungente: a proposito del velo, si domanda se «i musulmani dovrebbero sentirsi veramente liberi di credere che il Creatore dell’universo si interessa di sartoria».

Analoghe provocazioni colpiscono il presidente Bush, che «parla sempre utilizzando espressioni adeguate al XIV secolo», e l’influenza dell’evangelismo sui massimi esponenti della politica USA: «Dovrebbe essere inutile precisare che, in merito alla messa a punto di armamenti nucleari, non bisognerebbe consultare predicatori o squilibrati. Per molti anni la politica americana in Medio Oriente è stata plasmata, almeno in parte, dagli interessi dei fondamentalisti cristiani nei confronti del futuro di Israele», un bell’esempio, a sua detta, di «cinismo religioso». E le influenze si estendono, purtroppo, al mondo della scienza, della lotta alla droga, dell’amministrazione della giustizia. Gli esempi sono numerosi, le conseguenze immaginabili.

Va doverosamente precisato che, per l’autore, vi è comunque una differenza tra i due schieramenti, e per presentarla ricorre all’immagine dell’arma “perfetta”, quella che otterrebbe i risultati voluti senza spargere sangue: la tesi presentata è che, a differenza di Bin Laden e Saddam Hussein, Bush e Blair, se l’avessero a disposizione, non autorizzerebbero mai il ferimento o l’uccisione di una persona innocente.

Harris scaglia i suoi strali anche contro i religiosi moderati. La loro prudenza sarebbe solo il «frutto delle molte mazzate della modernità», e «un religioso moderato non è altro che un fondamentalista mancato». Contrariamente a ciò che si ritiene, la loro posizione sarebbe comunque deleteria, perché «tradiscono tanto la ragione quanto la fede». Si capisce come queste posizioni possano essere state considerate politicamente scorrette, ma l’autore può ricordare, a propria discolpa, la triste condizione dei non credenti: «criticare la fede di un individuo rappresenta un tabù, mentre è lecito disapprovare le opinioni che si hanno, ad esempio, sulla fisica o sulla storia». Se di battaglia si tratta, può essere definita una battaglia ad armi pari?

Difficile, in queste condizioni, trovare soluzioni. Harris le propone, anche se è lecito (e razionale) giudicarle troppo spericolate, oltre che ambiziose: «dobbiamo deciderci a riconoscere che l’unica cosa che consente agli esseri umani di collaborare tra loro senza restrizioni è la volontà di permettere che le loro credenze vengano modificate da fatti nuovi […] Se non vogliamo che parole come “Dio” e “Allah” distruggano il nostro mondo, dobbiamo considerarle alla stregua di termini quali “Apollo” e “Baal”». Non che l’autore non si renda conto dell’enormità del compito, ma gli piace rammentarci come «una rivoluzione totale del nostro pensiero potrebbe completarsi nel giro di una sola generazione: sarebbe sufficiente che genitori e insegnanti dessero risposte oneste alle domande dei bambini». L’onestà, perdonatemi la vena hobbesiana, non è mai stata a mio avviso una virtù pagante, in questo mondo sublunare.

Il testo contiene anche un lungo excursus sull’etica e i suoi legami con le neuroscienze – stimolante, anche se suona un po’ incongruo rispetto al testo, come se vi fosse stato appiccicato all’ultimo momento. Perplessità più sostanziali sorgeranno, invece, leggendo l’ultimo capitolo, intitolato Esperimenti sulla coscienza. Vi prevale esplicitamente la fascinazione verso le discipline orientali. Non che sia un unicum nel pensiero non religioso (Schopenhauer docet): ma Harris va oltre, disquisendo di esperienze di contemplativi in «connessione con l’universo». Benché conscio che termini come “spiritualità” e “misticismo” possano inevitabilmente evocare associazioni sconvenienti, «il misticismo» - per il saggista - «è un ambito che concerne la razionalità, a differenza della religione». Harris ha anche ribadito queste tesi sul numero di ottobre/novembre 2005 del Free Inquiry, rispondendo alla critica che quattro numeri prima, sulla stessa rivista, Tom Flynn gli aveva formulato a proposito di questo suo “accontentarsi” di una terminologia presa a prestito dal mondo religioso: «c’è un fondo di verità nella grandiosità nel linguaggio “con la testa sulle nuvole” della religione».

La fine della fede è dunque un libro dalle molte sfaccettature: non tutte saranno probabilmente apprezzate dal lettore. Ciononostante, il tema prevalente è di sincera preoccupazione nei confronti di una storia umana che il fanatismo religioso può interrompere anzitempo. Anche la chiusura ha toni accorati: «Non abbiamo bisogno di raccontarci fantasie tribali per renderci conto, un bel giorno, che amiamo il nostro prossimo, che la nostra felicità è inscindibile dalla sua, e che tale interdipendenza richiede che le persone di tutto il mondo abbiano la possibilità di prosperare. Le nostre identità religiose, chiaramente, hanno i giorni contati. Anche i giorni dell’umanità stessa probabilmente saranno contati, se non ci renderemo subito conto di tutto questo».

Catastrofista? Forse. Ma perché queste previsioni si rivelino esagerate, è necessario che gli uomini ragionevoli diano concretamente una mano. L’integralismo non si combatte solo con buone letture – anche perché le letture degli integralisti, come Harris ben dimostra, sono limitate e per nulla rassicuranti.

Raffaele Carcano
dicembre 2006