Spinoza e l’ateismo

di Antonio Crivotti

Parte 1

Mettersi al riparo dal sospetto di ateismo era, ai tempi di Spinoza, un’esigenza primaria per chiunque volesse tentar di trasmettere il proprio pensiero. Anche in quell’Olanda dove avevano trovato rifugio e relativa libertà di culto tanti perseguitati di diverse origini e religioni, e in particolare quel gruppo di ebrei provenienti dal Portogallo che aveva costituito ad Amsterdam la comunità nel cui ambito Spinoza era nato e si era formato, l’accusa di ateismo era pericolosa e infamante.

Pericolosa, perché sebbene l’Olanda facesse parte di una delle nazioni più tolleranti dell’epoca, la federazione indipendente di provincie costituitasi nel 1579 con l’Unione di Utrecht, il cui art. 13 garantiva che

    «ogni individuo deve essere libero nella propria religione, e nessuno deve essere molestato o inquisito per questioni di culto»1

questa libertà di principio era di fatto soggetta a restrizioni. In particolare, quando nel 1619 la città di Amsterdam finalmente riconobbe ufficialmente agli ebrei il diritto di praticarvi la loro religione, impose loro di mantenere una stretta osservanza della loro ortodossia, di aderire scrupolosamente alla legge mosaica e di non tollerare deviazioni dalla fede in «un Dio creatore onnipotente», o dubbi sull’affermazione che «Mosè e i profeti rivelarono la verità sotto ispirazione divina, e che c’è un’altra vita dopo la morte nella quale i buoni riceveranno una ricompensa e i cattivi un castigo»2. Erano dunque tollerate religioni diverse dal predominante calvinismo, ma ciascuna nella propria ortodossia che doveva affermare e cautelare le credenze comuni al cristianesimo e al giudaismo. Alle sanzioni e alle condanne non sfuggì, ad esempio, un altro ebreo di origine portoghese, Uriel da Costa, arrestato dalle autorità di Amsterdam e condannato a un’ammenda per un suo libro considerato un affronto al cristianesimo e al giudaismo, scomunicato dalla locale comunità ebraica, poi suicidatosi nel 1640, quando Spinoza aveva otto anni, a seguito delle indicibili umiliazioni inflittegli dalla stessa comunità per concedergli la riammissione da lui richiesta. Né vi si sottrasse lo stesso Spinoza, che nel 1656 dovette allontanarsi da Amsterdam dopo aver subito a sua volta l’espulsione da quella stessa comunità, nella quale fino a quel momento era cresciuto e aveva goduto di ammirazione e rispetto per la sua precoce erudizione e la sua eccezionale intelligenza. L’atto di scomunica (kherem), che la dice lunga sullo spazio lasciato al dissenso nelle comunità religiose di ogni confessione, gli rimprovera soprattutto di aver professato e insegnato «abominevoli eresie». A rivelarne il tono è sufficiente il seguente estratto delle maledizioni che seguono la motivazione:

    «(Baruch de Espinoza) …sia maledetto di giorno e maledetto di notte; maledetto sia quando è sdraiato e maledetto sia quando si alza. Maledetto sia quando esce e maledetto sia quando entra. Possa il Signore non perdonarlo o accoglierlo mai. Possano l’ira e la riprovazione del Signore ardere d’ora in avanti contro quest’uomo, gravarlo di tutte le maledizioni scritte nel libro della legge, e cancellare il suo nome da sotto il cielo…»3.

Il documento si conclude con l’avviso che «nessuno deve comunicare con lui (che a differenza di Da Costa, non richiese mai la riammissione nella comunità) neppure per scritto, né accordargli favori, né stare con lui sotto lo stesso tetto, né avvicinarsi a lui a meno di quattro cubiti, né leggere qualsiasi trattato composto o scritto da lui». Certo non è il rogo, come per Giordano Bruno in apertura di secolo e ancora per molto tempo in voga negli stati soggetti all’Inquisizione: ma specialmente l’ultimo divieto, quello di leggere qualsiasi trattato composto o scritto da lui, non poteva che suonare come una tremenda minaccia a un uomo di pensiero non disposto a rinunciare alla diffusione delle proprie idee, che ne sarebbe rimasto soffocato se della rigida imposizione del divieto si fossero fatte carico anche le autorità civili. Quanto basta a spiegare la cautela di Spinoza che, con la sola eccezione delle sue Lezioni sui Principî della filosofia di Descartes, non ha pubblicato nulla in vita con il suo vero nome, e ha preferìto affidare a un amico la pubblicazione postuma della parte più importante della sua opera. Altra cautela, non meno importante, dato che la paternità delle sue opere anonime o circolanti sotto altro nome poteva comunque essere identificata (come di fatto accadde), era di non rendersi imputabile almeno della più grave delle eresie per tutte le religioni, l’ateismo appunto, che neppure la “tollerante” Olanda avrebbe potuto tollerare.

Quanto infamante fosse la qualifica di “ateo” a quei tempi, e ancora nel successivo secolo dell’Illuminismo (e forse ancora oggi in certi ambienti), è efficacemente illustrato, quale che sia il livello di ironia che le si vuole attribuire, dalla seguente frase nella conclusione della voce «ateo, ateismo» del Dictionnaire philosophique di Voltaire:

    «Quale conclusione trarremo da tutto ciò? Che l’ateismo è un mostro assai pericoloso in coloro che governano; che lo è anche nelle persone di studio, anche se la loro vita è innocente, perché dal loro studio esso può arrivare fino a quelli che vivono in piazza; e che, se non è certo funesto quanto il fanatismo, è tuttavia quasi sempre fatale alla virtù»4.

Senza dubbio con la rabelaisiana esagerazione “un mostro” lo scetticissimo Voltaire irride i benpensanti, tramandandoci un significativo riflesso della loro disposizione nei confronti dell’ateismo. La successiva spiegazione semiseria è ancor più significativa: vi traspare un’avversione all’ateismo non tanto di ordine metafisico quanto di ordine morale, per le presunte implicazioni della mancanza, nell’ateo, dell’attesa di ricompensa o castigo. Il Dio che l’irriverente Voltaire sarebbe disposto, se necessario, a “inventare”, è puramente strumentale: strumento nelle mani degli uomini colti (i quali, sembra di capire, per se stessi potrebbero anche farne a meno) da usare per tenere a bada gli uomini di potere e la gente comune, ritenuti incapaci di mantenersi virtuosi in mancanza di un adeguato “timor di Dio”. Si avverte quindi un’accezione della qualifica di “ateo” implicante, nella percezione comune (e forse un po’ anche in quella dello stesso Voltaire): “egoista”, “dissoluto”, “sovversivo”, insomma assolutamente (o potenzialmente) “immorale”.

Per questo Spinoza, che ateo certamente non era in questa accezione impropria ma sostanzialmente lo era nel senso letterale e più corrente del termine, da questa qualifica doveva mettersi al riparo e, da par suo, riuscì a farlo senza venir meno, formalmente, alla coerenza logica del suo sistema di pensiero (sebbene il suo sostanziale ateismo non potesse sfuggire né ai rabbini che decretarono la sua scomunica, né alla maggior parte dei suoi commentatori, ostili e non, del suo tempo e delle epoche successive).

Quale modo migliore di mettersi al riparo dal sospetto di ateismo che aprire il discorso con una dimostrazione more geometrico dell’esistenza di Dio?

Nell’opera giovanile Korte Verhanderling van God, de Mens en de zelfs Welstand (Breve Trattato su Dio, sull’uomo e sul suo stato felice), che è una serie di appunti raccolti dagli allievi, la prima parte, «Su Dio», inizia con il capitolo intitolato «Sul fatto che Dio esiste». Ed ecco le prime parole del testo: «Cominciamo dal primo punto: c’è un Dio? Affermiamo di poterlo dimostrare». Seguono una dimostrazione a priori in cinque righe, una seconda dimostrazione in tre righe, una terza dimostrazione a posteriori, ecc.

Anche la grande opera della maturità, la Ethica ordine geometrico demonstrata (Etica, dimostrata con metodo geometrico), incomparabilmente più organica del Breve Trattato, inizia con una parte dedicata alla definizione di Dio e alla dimostrazione della sua esistenza…

È difficile non credere che queste due aperture siano intese, e un po’ troppo sbrigativamente nel primo caso5, a confondere anche il più sospettoso degli inquisitori…

Ma è davvero possibile dimostrare l’esistenza di Dio, coerentemente e senza ironia, per un filosofo onesto e che non crede in Dio? Spinoza ci riesce da par suo, con una strategia consistente nel cominciare col definire Dio in maniera tale che la sua esistenza risulti logicamente incontrovertibile. Poi si sofferma sulle proprietà che il suo Dio possiede in conseguenza della definizione, rinviando a dopo l’indicazione delle proprietà che il suo Dio non ha (ed è solo a questo punto che si palesa il sostanziale ateismo spinoziano, e l’incompatibilità delle sue vedute con quelle delle religioni istituzionalizzate).

Il cap. VII del Breve Trattato è intitolato «Degli attributi che non appartengono a Dio», e questi comprendono l’essere «omnisciente, misericordioso, saggio ecc.», e l’essere il «bene supremo», attributo, quest’ultimo, che Spinoza nega perché presupporrebbe che fosse «l’uomo stesso e non Dio ad essere causa dei suoi peccati e del suo male, il che è impossibile in base a quel che abbiamo dimostrato».

Il primo passo della strategia spinoziana è coerente con le vedute epistemologiche esposte nel Tractatus de Intellectus Emendatione (Trattato sul perfezionamento dell’intelletto):

    «Chiamo impossibile la cosa la cui natura implica che è contraddittorio porne l’esistenza; necessaria quella la cui natura implica che è contraddittorio non porne l’esistenza; possibile quella la cui stessa natura implica che non è contraddittorio né porne né non porne l’esistenza ma la cui necessità o impossibilità di esistenza dipende da cause che ignoriamo, finchè non ne immaginiamo l’esistenza per finzione»6.

Questo passo di avanguardia, adeguatamente tradotto7 nel linguaggio di oggi, non è altro che l’affermazione, logicamente ineccepibile, che in un sistema assiomatico si possono distinguere tre tipi di proposizioni: quelle vere e dimostrabili (ossia deducibili dagli assiomi e dalle definizioni mediante le regole di inferenza), quelle false e la cui falsità è dimostrabile (ossia quelle la cui negazione è deducibile dagli assiomi), e quelle la cui verità o falsità non è decidibile senza l’apporto di elementi estranei al sistema assiomatico che si sta usando. Le proposizioni dimostrabili sono tautologie, e non possono aggiungere alcuna conoscenza a quanto era implicitamente contenuto negli assiomi e nelle definizioni dei loro termini.

Lo Spinoza epistemologo sa dunque benissimo che la verità della proposizione «Dio esiste», dimostrata a partire da assiomi e da una definizione del termine “Dio” scelti ad hoc perché la proposizione risulti dimostrabile, non aggiunge nulla, sul piano della conoscenza, al contenuto dato per definizione (quindi convenzionalmente) alla parola “Dio”. E grosso modo, come cercherò di mostrare nella seconda parte, Spinoza definisce Dio come l’insieme di tutte le cose che esistono, sì che basta imporre che il concetto di esistenza soddisfi il naturalissimo assioma asserente che «ogni insieme i cui elementi sono cose che esistono esiste» per poter concludere che Dio esiste.

È così che a modo suo, anticipando Voltaire, anche Spinoza si è “inventato” il suo Dio, ma molto diverso dal Dio dispensatore di ricompense e castighi di cui Voltaire avvertiva l’utilità per controllare gli impulsi malvagî degli uomini, e per motivi ben diversi. Molto diverso anche dal Dio e dagli dèi dai quali in tutti i tempi stregoni, oracolisti, rabbini, preti, pastori, imam e ayatollah hanno attinto la propria autorità.

Parte 2

«Spinoza non solamente era ateo, ma insegnò l’ateismo»8. Questa opinione di Voltaire è condivisa da molti commentatori. Eppure la parola “Dio” pervade l’intera opera del filosofo, e l’esistenza dell’ente denotato con questo termine viene continuamente riaffermata. La chiave di risoluzione di questo paradosso non può che trovarsi nel significato che Spinoza attribuisce alla parola “Dio”.

Attento a definire i suoi termini, come è d’obbligo nel discorso more geometrico, Spinoza mostra di attribuire alle definizioni in genere un valore puramente convenzionale, come si usa in logica e in matematica, e lo afferma in modo inequivocabile nella frase che segue la definizione delle parole “possibile” e “contingente” nei Pensieri metafisici9.

«E se si vuol chiamare contingente quel che io chiamo possibile, e al contrario possibile quel che io chiamo contingente, non mi opporrò, non avendo l’abitudine di discutere sulle parole»10.

La definizione spinoziana di “Dio” suona piuttosto ostica a un orecchio moderno:

    «Per Dio intendo un ente assolutamente infinito, ossia una sostanza consistente in un’infinità di attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita».

Questa definizione può essere resa formalmente intellegibile attraverso un’analisi puramente sintattica, ossia un esame dei termini definitori che la compongono basata sulle definizioni che lo stesso Spinoza ci fornisce di questi termini, accompagnato da un analogo esame delle definizioni dei termini definitori, e così via fino a risalire a quelli che presumibilmente Spinoza, se avesse scritto tre secoli più tardi, non avrebbe esitato a riconoscere come “termini primitivi” (ossia non definiti) del suo discorso. Basterà questa analisi per convincersi che qualunque sia il significato che si vuol attribuire alla proprietà denominata “esistenza”, l’ente denominato “Dio” così definito ha questa proprietà11.

L’analisi è facilitata da un minimo di formalizzazione oggi possibile grazie all’esistenza di un linguaggio e di concetti che ai tempi di Spinoza non esistevano o non erano sufficientemente sviluppati12. Ne faremo uso senza alcuna pretesa di rigore, con il solo proposito di cercar di chiarire gli elementi del discorso spinoziano che qui ci interessano, con piena consapevolezza dell’arbitrarietà che una simile proposta di interpretazione comporta.

La definizione di “Dio” sopra riportata, che per brevità chiameremo “definizione D”, è costituita in realtà da due definizioni, che l’autore ci propone come equivalenti: una prima definizione breve (che indicheremo con Db):

    «ente assolutamente infinito»,

e una seconda più lunga (che indicheremo con Dl):

    «sostanza consistente in un’infinità di attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita».

Cominciamo con l’analisi della seconda. Preliminarmente Spinoza aveva definito il termine “sostanza” come «ciò che è in sé ed è concepito di per sé, ossia il cui concetto non ha bisogno di un’altra cosa per essere formato». Più che di una definizione, si tratta, e non lo si potrebbe esprimere meglio, dell’affermazione che “sostanza” è un concetto primitivo e, poiché dal contesto della definizione D si capisce che si possono considerare diverse sostanze, possiamo convenire di usare il simbolo S per denotare una generica sostanza, simboli del tipo S’, S’’, S’’’ ecc. per elencare diverse sostanze, e il simbolo S per indicare l’insieme di tutte le sostanze.

Immediatamente dopo la sostanza, Spinoza definisce l’“attributo” come «ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza». Il termine “essenza” non viene esplicitamente definito, ma tenuto conto dell’uso che ne viene fatto anche in altre parti del testo, il discorso si può formalizzare considerando un secondo insieme A i cui elementi sono enti primitivi denominati “attributi”, rappresentati da simboli quali a, b, c, etc… Ad ogni sostanza S si deve pensare associato un sottoinsieme di A i cui elementi sono detti «attributi della sostanza S», e questo sottoinsieme definisce (provvisoriamente) l’“essenza” della sostanza S.

Per proseguire l’analisi della definizione Dl occorre capire che cosa Spinoza intende per “infinità”. Lo si desume dalla definizione preliminare di “finito nel suo genere”: «Si dice finita nel suo genere una cosa che può essere limitata da un’altra della stessa natura. Per esempio un corpo è detto finito perché ne concepiamo sempre un altro più grande…». È chiaro che, nel nostro linguaggio, se la «cosa» è un insieme i cui elementi godono di certe proprietà che ne determinano la «natura», per Spinoza (ma non in senso moderno) l’insieme è finito se è parte propria13 di un insieme della stessa natura. Per converso, in senso spinoziano l’insieme si dovrà intendere infinito se è «massimale» rispetto alle proprietà che ne definiscono la natura, ossia se non è parte propria di alcun insieme della stessa natura.

La definizione Dl considera una “infinità di attributi”, associati alla sostanza che si vuol definire (“Dio”), ciascuno dei quali esprime una “essenza eterna e infinita”. Qui per “attributo” ci sembra non si possa intendere altro che «l’insieme degli attributi che caratterizzano una sostanza», e la frase Dl presuppone che l’insieme degli attributi che caratterizzano una sostanza possa includere insiemi di attributi caratteristici (essenze) di altre sostanze. A questo punto si presentano due problemi Interpretativi di rilevanza strutturale per la nostra proposta di formalizzazione:

  1. Si può caratterizzare una sostanza attraverso una scelta completamente arbitraria dei suoi attributi?
  2. In che senso una nuova sostanza può essere determinata a partire da altre sostanze preliminarmente assegnate, come richiede la definizione Dl?

Alla prima domanda risponde negativamente un’importante riserva contenuta nella spiegazione che segue immediatamente la definizione D nel testo spinoziano. La spiegazione riguarda l’espressione “assolutamente infinito”, ossia la definizione breve Db, e contiene la frase:

    «ma per ciò che è assolutamente infinito, tutto ciò che esprime un’essenza e non inviluppa alcuna negazione appartiene alla sua essenza».

È intanto chiaro che, perché la frase abbia senso, «ciò che esprime un’essenza» deve poter in qualche senso “appartenere” all’essenza di un’altra cosa, il che ci riporta alla domanda 2). Ma la risposta negativa alla domanda 1) è implicita nella condizione «e non inviluppa alcuna negazione», che denota presupposti di compatibilità da rispettare nell’associare a una sostanza i suoi attributi.

Per poter introdurre assiomi che includano adeguate condizioni di compatibilità e per rispondere in modo preciso alla domanda 2) è conveniente raffinare un po’ il nostro schema considerando ogni sostanza S come un insieme, associando a ogni elemento s di questo insieme un sottoinsieme di A, e ridefinendo l’essenza di S come l’insieme {(s,a)} di tutte le coppie (s,a) al variare di s in S e di a nell’insieme degli attributi di s. In termini più discorsivi, gli attributi non vengono più associati alla sostanza S ma agli elementi di S, e l’essenza di S è costituita dalla totalità deigli attributi dei suoi elementi assieme alla specificazione degli elementi che li possiedono. La “natura” di una sostanza è costituita dagli attributi comuni a tutti i suoi elementi.

L’unico tipo di condizione di compatibilità che interessa il nostro discorso si impone adottando il seguente assioma: sono dati in A due attributi, indicati con i simboli e ed e’ e chiamati, rispettivamente, “esistenza” e “non esistenza”14, tali che se e è attributo di un elemento di una sostanza S, e’ non è attributo dello stesso elemento, e viceversa. Equivalentemente, qualunque sia l’elemento s di una sostanza S, le coppie (s,e) ed (s,e’) non non possono entrambe appartenere all’essenza di S.

In questo schema è facile dare una risposta alla domanda 2. Una sostanza S si dirà la “composizione” di due o più sostanze S, S’’, S’’’… se la sua essenza è l’unione15 delle essenze di queste sostanze. E la possibilità di costruire una nuova sostanza da sostanze date può essere assicurata adottando il seguente assioma: «per qualsiasi scelta di quanti si vogliano elementi di S, esiste un elemento di S che è la composizione degli elementi scelti»16.

Per completare l’analisi di Dl dobbiamo ancora occuparci del termine “eterno” e Spinoza ce ne fornisce la seguente spiegazione: «Per eternità intendo l’esistenza stessa, in quanto è concepita come derivante necessariamente dalla sola definizione di una cosa eterna». La prima proposizione identifica il termine “eternità” con il termine “esistenza”, e il resto della frase dice in sostanza che si tratta di un concetto primitivo (da noi già introdotto nello schema formale con l’introduzione dell’elemento e nell’insieme A degli attributi).

Abbiamo ora tutti gli elementi per tradurre D2 nel nostro linguaggio: ogni “sostanza eterna e infinita” è un insieme che tra gli attributi che ne definiscono la natura comprende l’elemento e (esistenza) e massimale rispetto alle proprietà che ne definiscono la natura. L’unione di tutti questi insiemi (“tutti” perché “un’infinità” in senso spinoziano) è la sostanza che si vuol definire, e che risulta perciò associata all’insieme i cui elementi sono tutti e soli gli elementi di quelle sostanze presenti nello schema i cui elementi possiedono tutti l’attributo di esistenza.

Alla stessa concezione porta la definizione breve Db, tenuto conto della sottolineatura che segue immediatamente la definizione D nel testo spinoziano: «Dico assolutamente infinito, e non solamente nel suo genere», definizione implicita di “assolutamente infinito” che può tradursi, nel nostro linguaggio, con “massimale rispetto al solo attributo di esistenza”, prescindendo dagli altri attributi che distinguono le “nature” delle diverse sostanze prese in considerazione.

La precedente analisi mostra che la definizione spinoziana del termine “Dio” banalizza la dimostrazione della sua “esistenza”, qualunque sia il significato che si decide di attribuire ai termini primitivi (tra i quali rientra il termine “esistenza”), o anche se questi termini vengono considerati semplicemente come simboli privi di significato. La banalizzazione permane se i termini vengono interpretati, come fa tacitamente Spinoza fin dall’inizio, attraverso una corrispondenza con elementi dell’universo effettivo, inteso come «la totalità delle cose esistenti, conosciute e ignote, e l’indefinito ambito spaziale in cui sono accolte»17, e in questo caso equivale a identificare Dio con l’universo stesso (comprendente gli enti materiali, gli esseri viventi, il pensiero e i sentimenti con le loro diverse forme di espressione, le leggi della natura ecc.).

Ma è proprio ai molteplici aspetti dell’universo effettivo che è rivolto in massima parte l’impegno intellettuale di Spinoza, il quale per la teologia e per la metafisica mostra tutto sommato scarso interesse, e addirittura un certo disprezzo se in apertura dei suoi Pensieri metafisici18 proprio lui, così meticoloso quando vuole, ostentatamente non degna il termine caratterizzante del titolo neppure di una definizione:

    «Non dico nulla della definizione di questa scienza, e neppure dell’oggetto che studia; la mia intenzione è semplicemente di spiegare brevemente le questioni che sono più oscure e che sono trattate qua e là dagli autori nei loro scritti metafisici».

La parte più importante dell’opera spinoziana è esposta nell’Etica (e la scelta del titolo denota significativamente i prevalenti interessi del filosofo), ed è anche sviluppata nel Trattato sul perfezionamento dell’intelletto e nel Trattato delle autorità teologica e politica. La parte propriamente teologica di tutta l’opera si riduce nella sostanza a poco più di quel che abbiamo cercato di interpretare in questo articolo, ed è difficile non vedervi una certa dose di raffinata malizia, un escamotage difensivo che gli consente di parlare di tutto e di “insegnare l’ateismo” riferendosi continuamente a Dio.

Così come non era solito “discutere sulle parole”, Spinoza sicuramente non attribuiva un indebito valore conoscitivo agli aspetti puramente formali della struttura del discorso. La sua adozione dellla presentazione more geometrico ci appare soprattutto come un inessenziale conformarsi allo spirito nuovo dei tempi, una scelta di stile espositivo al quale riconosceva sì dei meriti, ma non tanto per la scoperta di cose nuove quanto per il chiarimento e la verifica di coerenza delle conoscenze già acquisite. E sono proprio i propositi di chiarezza e di coerenza a guidare la costruzione del grandioso sistema filosofico spinoziano, che abbraccia la teoria della conoscenza, le scienze della natura, la psicologia, l’etica e la politica, che affonda le sue radici nell’antichità classica e nella tradizione giudaica e cristiana, che accoglie, giustifica e sistematizza le conquiste intellettuali dell’umanesimo e delle scienze emergenti e precorre l’illuminismo e il positivismo. Un sistema che oltre a non lasciare alcuno spazio al soprannaturale, all’occulto, a qualsiasi forma di assolutismo e alla concezione di un Dio antropomorfo consapevolmente coinvolto nelle faccende umane, denuncia - e con cognizione di causa - le intolleranze, le faziosità ed i fanatismi che questa concezione contribuisce a generare e ad alimentare.

Note

  1. Steven Nadler. Spinoza, A Life. Cambridge University Press 1999, pag. 8.
  2. Steven Nadler, op. cit., pp. 11-12.
  3. Citato in: K. Armstrong, A History of God. Ballantine Books, New York 1993, pag. 311.
  4. Traduzione di Mario Bonfantini, nella collana “Einaudi tascabili”, prima edizione I millenni, 1950.
  5. Ma la responsabilità di una certa superficialità e confusione nel Breve Trattato è probabilmente da attribuire agli estensori. Si veda in proposito la nota introduttiva di Madeleine Francès in Spinoza, oeuvres complètes nella collana “La Pléiade”, Edizioni N.R.F. (Da quest’ultimo libro ho tratto e ritradotto tutte le citazioni di Spinoza in questo articolo).
  6. Spinoza. Oeuvres complètes, collana “La Pléeiade”, Edizioni N.R.F., pag. 174.
  7. Per questa traduzione propongo la seguente corrispondenza (nell’ordine in cui i termini si presentano nel testo):
  8. “impossibile” > “dimostrabilmente falsa”
    “necessaria” > “dimostrabilmente vera”
    “possibile” > “con valore di verità non deducibile dagli assiomi adottati”
    “non porre l’esistenza” > “porre l’inesistenza”
    “finchè non ne immaginiamo l’esistenza per finzione” > “finchè non adottiamo assiomi aggiuntivi che rendano decidibile il suo valore di verità”.
    La penultima delle corrispondenze proposte va probabilmente intesa come variante rispetto all’interpretazione del testo latino nella traduzione in francese da me utilizzata.

  9. Voltaire. Dizionario filosofico, Einaudi 1995, pag. 48.
  10. Si tratta di un’appendice ai Principî della filosofia di Descartes.
  11. Spinoza, op. cit.
  12. In altre parole, nella concezione spinoziana l’esistenza di Dio è insita nella struttura formale del discorso, indipendentemente dalla semantica.
  13. Si tratta essenzialmente del linguaggio della teoria degli insiemi, che nelle considerazioni che seguono va considerato come metalinguaggio per parlare di quella parte del linguaggio ordinario che Spinoza cerca di rendere abbastanza preciso da poterci costruire deduzioni logiche.
  14. Ossia se ne è un sottoinsieme distinto dall’insieme stesso.
  15. Si tratta di termini puramente convenzionali ai quali per ora non va attribuito alcun significato particolare, scelti così solo in vista di una successiva e - per il nostro discorso inessenziale - interpretazione del formalismo.
  16. Abbiamo definito le essenze come insiemi, e qui “unione” va inteso nel senso della teoria degli insiemi.
  17. Assioma per nulla restrittivo, perché se non è soddisfatto si può sempre pensare di ampliare S in modo da costruire un nuovo sistema che lo soddisfi.
  18. Devoto-Oli. Nuovo vocabolario illustrato della lingua italiana, ed. Selezione dal Reader’s Digest, Milano 1987.
  19. V. nota 9.